FRANCESCO GUARDI
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L’eccezionale ciclo pittorico settecentesco della chiesa di Selva del Montello fu donato da Francesco Petropoli nel 1819, come ricorda una scritta, emersa durante le operazioni di restauro del dipinto raffigurante Mosé che batte la rupe.
Il ciclo viene menzionato nella documentazione dell’archivio storico della Curia di Treviso, che conserva le testimonianze delle visite pastorali che i vescovi trevigiani eseguirono nel corso dei secoli negli edifici religiosi della diocesi, le quali costituiscono per il patrimonio artistico del territorio una fonte davvero utile, mentre i dipinti di Selva sono menzionati nelle visite pastorali ottocentesche e già nel 1779 vi è ricordata la famiglia Petropoli alla quale si deve la donazione del ciclo alla chiesa montelliana.
Risale alla visita pastorale compiuta dal vescovo Paolo Giustiniani il 23 maggio 1779, data della consacrazione dell’edificio sacro, la menzione della presenza nel territorio della parrocchia di Selva anche di un “Oratorio del Signor Antonio Petropoli, mercante veneziano”.
La cessione alla parrocchia della proprietà dell’oratorio si ricava dagli atti della visita pastorale del 9 marzo 1885 del vescovo Giuseppe Apollonio.
Solo nel decreto della visita del vescovo Giacinto Longhin dell’8 Febbraio 1925 della parrocchiale di Selva sono menzionati per la prima volta. Si fa infatti riferimento a sei tele di scuola tiepolesca ad ornamento del presbiterio con fatti dell’Antico Testamento.
A queste indicazioni si aggiungono altri dati tratti dall’Archivio della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Veneto, che consentono di ricostruire la storia recente del ciclo pittorico.
Una nota del 18 marzo 1918 indica sei dipinti lungo le pareti dell’Altare Maggiore allineati attribuendoli al Tiepolo e rappresentanti fatti biblici, come la Caduta della manna nel deserto, il popolo ebraico che adora il serpente di bronzo, Mosé adottato dalla figlia del faraone, Mosé che percuote la rupe.
L’attribuzione tiepolesca, però, non trova tuttavia consenso dal soprintendente Gino Fogolari che si occupa dei dipinti di Selva nell’ambito del vasto programma di salvaguardia delle opere d’arte esposte ai pericoli della Prima Guerra Mondiale, indicando quale probabile autore lo Zompini, un seguace del Tiepolo.
Nel Luglio 1930 la chiesa di Selva è colpita da un ciclone che arreca danni irreparabili al patrimonio artistico della comunità parrocchiale. Le tele sono menzionate in una nota del 25 luglio 1930 inviata dal parroco al soprintendente, con la quale si spiega che delle sei tele laterali, già profughe in tempo di guerra, solo due rimasero intatte, le altre quattro furono gravemente lacerate.
Il 13 agosto dello stesso anno tutti i dipinti della chiesa di Selva furono indicati come demaniali e, pertanto, ritirati dalla Soprintendenza per essere conservati nei depositi di Palazzo Ducale a Venezia.
Dei numerosi dipinti che vennero ritirati, alcuni furono restaurati nel corso dei decenni successivi, mentre rimasero conservati nei depositi i sei grandi teleri raffiguranti le Storie di Mosé. Il seguito è storia dei giorni nostri, quando il riconoscimento della proprietà e la possibilità di eseguire il restauro ha consentito la loro restituzione all’ente proprietario. Ciò quindi ha offerto finalmente la possibilità di rendere noto ad un più vasto pubblico tale ciclo pittorico che costituisce una eccezionale presenza nell’intero territorio trevigiano.
Come già rilevato, nel dipinto “Mosè che fa sgorgare l’acqua dalla roccia” è ricomparsa la scritta: “MUNUS FRANCISCI PETROPOLI, AN. MDCCCX1X”. Il nome è quello di una famiglia veneziana proprietaria di un oratorio a Selva ed essa, perciò, avrebbe donato i quadri alla chiesa nel 1819. Che le pitture vengano da un altro luogo è dimostrato dagli evidenti tagli subiti ai lati, per adattarle agli spazi del presbiterio, ma è buio fitto sulla provenienza, già che quella era l’epoca nella quale circolavano a profusione i quadri delle chiese soppresse, venduti dal demanio e destinati, per lo più, alle chiese di terraferma. Nella stessa parrocchiale di Selva gli altari laterali erano spoglie di chiese veneziane demolite.
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“il Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia” si tratta del famoso episodio dell’acqua scaturita dalla roccia, ovvero l’evento di Massa e Meriba, riportato anche al capitolo 17 del libro dell’Esodo unitamente al combattimento contro Amalek. Esperienza tangibile che la vita di piante, uomini ed animali può sussistere solo se l’acqua è disponibile. L’acqua è sinonimo di vita e ,dove manca, la vita rischia o stenta ad affermarsi. Prova di ciò sono i deserti. Chi li attraversa senza scorte d’acqua o non avendo precisa cognizione ove può reperirla rischia la vita per disidratazione e chi abita ai confini dei deserti in zone semidesertiche ne conosce tutte le sfaccettature.
“La Caduta della manna” cibo che, secondo il racconto biblico, cadde dal cielo sugli Ebrei che attraversavano il deserto. La manna nella Torah (parola ebraica che significa insegnamento) fa riferimento al nutrimento del popolo d’Israele, durante il lungo peregrinare nel deserto per quarant’anni, dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana. E Mosè disse loro: “Questo è il pane che il Signore vi ha dato per cibo. Ecco ciò che ha prescritto in proposito il Signore: ne raccolga ognuno secondo le proprie necessità…”
Entrambe le tele di Francesco Guardi sono derivanti dalle corrispondenti composizioni di Giannantonio Pellegrini, ritrovate nel museo russo di Serpouchov, si conosce anche un bozzetto, in proprietà Myron Laskin a Los Angeles. Le opere si caratterizzano per una composizione mossa ed enfatica, tutta giocata sulla grandiosità della figura del protagonista e per una stesura pittorica violenta e disuguale. Quella di Francesco Guardi è una vita segnata dal continuo confronto col Canaletto, come testimoniato le iscrizioni “emulo del Canaletto” che compaiono in alcune sue opere. Un artista straordinario, poco apprezzato in vita e riscoperto soltanto nell’ottocento nella sua vena quasi preromantica. Francesco Guardi e la pittura, un rapporto che ha attraversato quasi il settecento, mettendo al centro spesso la sua Venezia. Francesco Guardi, un artista al quale il termine vedutista sta molto stretto, verrà riscoperto nella sua grandezza grazie forse anche ad una nuova idea di modernità che trova nel tocco rococò un’audacia che sarà poi ripresa dal segno spezzato e cromaticamente intenso della pittura impressionista. Il Guardi non mira nelle sue pitture a risultati di nitida percezione, ma ripropone un’interpretazione del dato reale soggettiva ed evocativa, realizzando immagini evanescenti ed irreali con lo sfaldamento delle forme e malinconiche penombre. È un artista che ha attraversato un’epoca aprendo uno squarcio verso il futuro, proprio per la sua capacità di interpretare la natura e non di rappresentarla.
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I Guardi sono stati un’importante famiglia di pittori che per tre generazioni hanno realizzato opere artistiche fra il Veneto, la Lombardia e Vienna, opere di carattere rococò e vedutista che ci hanno lasciato un’ immagine suggestiva di Venezia, loro principale residenza.
La loro attività pittorica copre un arco di tempo che va dalla seconda metà del ‘600 fino alla prima metà del ‘700.
La famiglia, originaria di Commezzadura nella Val di Sole in provincia di Trento, vede come capostipite Guardo de Guardi, che mandò il suo primo figlio Domenico a Vienna da uno zio canonico della cattedrale di Santo Stefano per avviarlo nella carriera artistica.
Dei cinque figli, però, i più conosciuti sono sicuramente Gianantonio (1699-1760) e soprattutto Francesco (1712-1793), la cui formazione e gran parte della sua attività fino al 1760 si svolsero insieme al fratello maggiore, Giannantonio, che dirigeva la bottega a conduzione familiare, dove tutti erano pittori, dal padre ai fratelli. Non è nota con certezza la data d’inizio del suo lavoro di vedutista, forse attorno al 1755. Guardi comincia a realizzare le prime vedute per il mercato dei visitatori stranieri, orfano in quegli anni di Canaletto, allora trasferitosi in Inghilterra. Le prime opere ricalcano le composizioni di Canaletto e Marieschi, la stesura pittorica è ancora fluida e controllata, lontana da quella frizzante e stenografica che lo renderà invece celebre. Rispetto al fratello manifesta una diversa sensibilità con una pennellata che diverrà rapida e spezzata con spumeggianti impasti di colore, rivelatori di un timbro cromatico vivacissimo in grado di rendere il legame tra figure ed atmosfera. L’interesse per il paesaggio lo porta ben presto ad avvicinarsi al vedutismo di cui propone un’ interpretazione personale che elimina la componente “fotografica” e documentaria per una resa atmosferica capace di rendere il particolare vibrare della luce della laguna. Nascono così capolavori come le due Vedute della Ca’ d’Oro o quelle conservate in musei di tutto il mondo. Nel 1782 ottenne l’incarico ufficiale di eseguire i dipinti in ricordo dei festeggiamenti per le visite di papa Pio VI e degli arciduchi russi Paolo Petrovic e Maria Teodorovna, opere che testimoniano la sua capacità di rappresentare anche la vita e il ritmo della sua città. Con il tempo il suo stile personalissimo diviene sempre più libero ed allusivo: le proporzioni fra i vari elementi sono liberamente alterate, la struttura prospettica diviene elastica e si deforma senza alcun aggancio con la realtà. Infine le figure diventano semplici macchie di colore, un rapido scarabocchio bianco o un punto nero tracciato con un segno tremolante. Oltre agli aerei capricci, dipinge anche alcune splendide immagini di ville immerse nel verde della campagna veneta e alle tradizionali riprese di Venezia egli affianca quelle della laguna, ampliando gli orizzonti del vedutismo veneziano settecentesco fino a dissolverlo in vaste distese d’acqua e di cielo. Dopo la morte nel 1793, su Francesco Guardi cade l’oblio e la sua riscoperta è merito della critica del Novecento.
Del fratello Gianantonio vi sono invece pochi e frammentari dati circa la biografia, soprattutto per quanto riguarda la vita privata e gli anni giovanili. Ciò è forse dovuto al fatto che la vicenda personale ed artistica di Gianantonio si svolse in un’epoca e in un ambiente che gli riservarono una scarsa attenzione e un’altrettanto modestissima considerazione. A questo si deve sommare l’aggravante di un totale oblio che ha inghiottito la vita e l’opera dell’artista per più di un secolo e mezzo, per una riscoperta, avviatasi soltanto nel secondo decennio del Novecento, che ha dato un posto di primissimo piano nel canone artistico settecentesco, non solo veneziano né solo italiano, ma persino europeo, grazie anche ad una critica più sensibile alla modernità che si è voluta riconoscere nelle opere maggiori del pittore, che hanno contribuito alla sua crescente rivalutazione storico-artistica.
Un particolare ringraziamento all’architetto Alessandro Facchin e all’associazione Selva Nostra per l’elaborazione dei testi
Un particolare ringraziamento alla voce di Giulia Zanetti e Roman Mandziy per gli audio